In una notte gelida di un Febbraio inoltrato e inondato di neve, Irina trascina la valigia piena di povere cose e si infila nel pulmino Volkswagen, stretta tra i pacchi inviati dalle famiglie alle compagne emigrate in Italia che con lo stesso tramite spediscono a casa gran parte dei guadagni. Il cuore a mille, lacrime amare, angoscia per la piccola Olga affidata a genitori in età avanzata, il buio di un futuro ignoto: il viaggio spossante attraversa momenti di pericolo alle frontiere, dove Mirko, collaudato autista, evita le perquisizioni a suon di euro passati di mano in mano per comprare la complicità dei doganieri. Il calvario del viaggio si conclude nella Napoli assonnata del primo mattino, alla via Marina. Sul biglietto custodito in petto nome e indirizzo di Tatiana, la cugina emigrata da dieci anni quando ne aveva diciannove. Il numero 16 di piazza Mercato è un palazzone dormitorio malandato, per lo più abitato da africani che s’arrangiano a vendere quanto producono fabbriche clandestine di borse, orologi, cd musicali contraffatti per conto di caporalati camorristici. La casa che accoglie Irina è un grande e caotico agglomerato di promiscuità. Convivono uomini e donne dell’est europeo, nigeriani, albanesi, in condizioni di sovraffollamento e zero privacy. Tatiana può offrire all’amica un posto nel suo letto a castello, una sedia, un minimo spazio nell’armadio sgangherato, quel che resta in un paio di mensole fissate sulla parete al di sopra di un fornello alimentato da bombole di gas. “Irina, forse ti ho trovato un lavoro. La signora dove sto a servizio ha la mamma disabile e cerca una badante.” E’ così e dopo un paio di giorni inizia l’assistenza dell’amica a una donna dispotica, aggressiva, insolente. Prendere o lasciare. Irina non ha neppure una mezza giornata di libertà, è condizionata nel mangiare dall’unica cucina consentita, che limita quantità e qualità per assecondare le prescrizioni mediche della vecchia, afflitta da acciacchi e malattie. Nei pochi momenti di pausa concessi dalla velenosa assistita, Irina prova a consolarsi ripercorrendo le ragioni che l’hanno spinta a fuggire da Nezin, cittadina non distante da Kiev. I genitori se ne sono liberati sposandola a Igor, un manesco scaricatore dei mercati generali della capitale e come gran parte degli ucraini marito padrone. L’uomo semi alcolizzato, ha schiavizzato la moglie, umiliata, frustrata con un matrimonio senza amore e rispetto. L’esasperazione di Irina è montata dopo numerosi episodi di violenze subite senza nessun motivo se non la convinzione dell’energumeno di poter sfogare a suo piacimento l’istinto bestiale di picchiare la moglie. “Qui, almeno non vivo l’incubo di violenze fisiche e umiliazioni” è la modesta consolazione della giovane donna, che in Ucraina ha cercato inutilmente, per anni, di mettere a frutto il diploma della scuola d’arte di Kiev, frequentata sopportando i disagi di un scomoda pendolarità. Si sbaglia e dovrà presto ricredersi. Di tanto in tanto compare in casa il genero della donna che Irina accudisce. Vincenzo è un omone dai modi bruschi. Dice di lui, chi lo conosce, che è un tipo poco raccomandabile. Nella fedina penale anche l’aggressione a una turista tedesca, adescata in un angolo solitario della villa comunale di Napoli, aggredita e stuprata. Irina, in un giorno come tanti di premure pretese dalla donna assistita, si rifugia nella sua stanza, un bugigattolo ricavato nel sottoscala. Si poggia sul letto e ascolta in cuffia una melodia della sua terra. Non sente entrare Vincenzo che chiude dietro di sé la porta, si avvicina al letto e mette una mano sulla bocca di Irina. La minaccia è senza scampo: “Se gridi o ti ribelli” ti denuncio come clandestina e ti faccio rispedire di dove sei venuta”. In quegli attimi di terrore la donna pensa alla figlioletta, al lavoro che le consente di non farle mancare niente, alle brutalità subite dal marito e tace, si sente violare dal bruto e non ha un gemito, annulla il tentativo istintivo di resistere. Solo le lacrime raccontano quello che le accade, il ricatto di un vigliacco, la sua fragilità di vittima senza difesa, il ricordo di una scelta obbligata che l’ha strappata alla sua terra. Diventa muta Irina, va in depressione, la donna che assiste l’investe di rimbrotti ingiuriosi. “Che hai cretina, sei in silenzio stampa? In casa mia mummie egiziane non ne voglio”. Il rapporto della badante con la disabile si inasprisce, trascende, diventa invivibile. Irina, in un giorno cupo di Napoli, quando il sole si diverte a smentire il mito di città privilegiata dal clima, strappa il permesso di assentarsi per un paio di ore. E’ davanti a Jamal, sindacalista palestinese che si occupa di migranti, si racconta. “Se ho qualcosa per te ti mando un messaggio” conclude l’incontro e Irina spera. Squilla il cellulare, Jamal le propone di lavorare in una piccola fabbrica di guanti. Il salario non è alto, ma decide per lei l’obiettivo di liberarsi della vecchia disabile e dalle brutalità del genero. Dieci, undici ore al giorno a fare guanti per un famoso stilista, pochi gesti ripetuti all’infinito, in un piccolo vano con l’assordante ticchettio delle macchine per cucire, i sermoni della titolare dell’impresa: “Siamo una famiglia e il lavoro, qua dentro, dà a mangiare a tutti noi. Se vi chiedo di lavorare oltre l’orario di normale chiusura e perché avrà presto un ritorno. Vi offro subito un aumento di venti euro al giorno. Irina ha la testa china sul tavolo di lavoro, gli occhi che bruciano, affaticati e iniettati di sangue, una bestemmia le sale dal profondo dell’anima, un giorno dopo l’altro è rabbia repressa per necessità.
Piove stamattina, il vento entra dalle fessure della finestra che denuncia infissi decrepiti. La notte se ne andata via lenta, dolente, insonne, un incubo dopo l’altro. Irina corre con affanno nella via principale di Nezin, inseguita da soldati russi che le gridano “alt”, l’ammanettano e la richiudono in una cella angusta, buia, l’abbandonano per giorni e giorni. L’isolamento è rotto da interrogatori senza possibile risposta: “Chi è il terrorista che vuole uccidere il Presidente, dove lo nascondi?”
A cacciare dalla testa l’angoscia da incubi interviene la ribellione di Irina alla schiavitù di badante. Incurante della pioggia che ha intriso i capelli e gli abiti, che riga le guance e annebbia la vista, Irina si accascia su una panchina di via Caracciolo e resta immobile a soffrire la dolorosa rivisitazione di una vita disgraziata. S’incammina, come un automa, scavalca la ringhiera con cui si conclude lateralmente la strada, percorre con difficoltà la scogliera anti flutti e siede su un masso dove un ragazzo innamorato ha tracciato con vernice rosa “Rosa sei la mia vita ti amo”. Irina si ritrova in acqua, senza averlo deciso. L’istinto di conservazione la spinge a lottare per non affogare. Si sente stringere da mani robuste, un braccio intorno al collo le tiene la testa fuori dall’acqua, avverte l’ansimare del salvatore, un ragazzo in tuta come tanti che si allenano correndo sul lungomare per prolungare la tradizione napoletana di ori nel canottaggio. Un ispettore di polizia le chiede “Perché?” Irina lo guarda smarrita e risponde con gli occhi, spenti dalla rassegnazione.
Luciano Scateni
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