In occasione del 14 Febbraio vi offriamo una raffinata ed originale lettura del piu nobile dei sentimenti nella chiave di lettura del professore Rino Caputo, gia preside della facolta di Lettere di Tor Vergata, e docente di letteratura comparata, nonchè insigne studioso di Dante.
“Amor est passio quaedam discedens ex visione ac immoderata cogitatione formae alterius sexus”. Quando Andrea Cappellano (Andrea, che era, forse, appunto, un cappellano di corte) predisponeva questo ‘riassunto’ di precetti per un giovane cortigiano (il De Amore, appunto), un secolo prima di Dante, non immaginava, certo, di diventare il ‘grammatico dell’amore per l’ avvenire.
Eh sì, perché da quel momento, i poeti hanno trovato le parole per dire l’amore anche a nome di tutti noi altri che non abbiamo il dono della poesia, ovvero che non sappiamo trovare le parole per dire le (nostre) passioni o, come più agevolmente ma forse meno icasticamente si chiamano oggi, emozioni.
Ma andiamo con ordine. Forse che prima di Andrea Cappellano non si dice l’amore? “Amor omnia vincit”, sentenzia Virgilio e, senza Ovidio e le sue arti e metamorfosi amatorie, non ci sarebbe la necessaria premessa a ogni dire d’amore nei secoli cosiddetti ‘bui’. E, tuttavia, fin dall’inizio dell’era delle lingue volgari, cioè da Andrea ‘cappellano’, non si trova il modo per dire l’amore senza un processo interiore soprattutto ‘intellettuale’ ovvero, come molti definiscono oggigiorno, neurocognitivo
La passione dell’amore ha bisogno di un commutatore attivo, di un coagulo e di un innesco: la ‘visione’. Vedere l’oggetto d’amore è la base ineludibile della passione che nasce. Con termini odierni, l’emozione scatta, si muove fuori da chi vede. Ma non basta. Occorre unire la visione a un effetto non puramente fisico della sua azione nel soggetto che prova l’emozione. Occorre la ‘cogitatione’.
Chi prova l’emozione ‘pensa’ all’amore ovvero al suo concreto oggetto visualizzato. Ma non basta. Occorre esagerare. Perché si dia la passione dell’amore occorre un pensare ‘immoderato’ che, prima di essere eccessivo negli accidenti modali, è innanzitutto ‘senza misura’ e, forse, non misurabile: … ‘Penso sempre a te’.
Si badi che l’oggetto del pensiero senza misura è la ‘forma’ dell’‘alterius sexus’. E qui occorre certamente e preliminarmente precisare, per noi contemporanei adusi a ogni distinguo: “alterius sexus” indica per Cappellano sia la lettera che lo spirito, per dirla con San Paolo (che aggiungeva: la lettera uccide e lo spirito salva).
Si tratta, cioè, di stabilire la diversità dell’oggetto dell’amore visto e pensato senza misura. E ognuno stabilisca ciò che per la propria inclinazione è ‘alterius sexus’. Ma, insomma, la differenza specifica vale meno, in questo caso, del genere prossimo: la ‘forma’, cioè, che è l’aspetto che si vede con gli occhi, illico et immediate, certo; ma, anche, la struttura nascosta, profonda si dice oggi, dell’oggetto dell’amore.
Vedere la forma attraverso gli occhi della ‘mente’, che pensa senza misura e produce quella particolare ‘passio’ che è l’emozione dell’amore.
È così che “Amore va per li occhi al core”. È così che nasce la teoria fondamentale del dire l’amore. Da questo momento, amore rima con cuore che riceve l’‘affetto’ dagli occhi, fisici e, appunto, neurocognitivi.
In tal senso non hanno inventato nulla le grammatiche del Novecento (la psicanalisi, ad es., innanzitutto, ma non solo); hanno per così dire soltanto commentato, talora luminosamente (la psicanalisi, soprattutto), questo assunto.
Un chiarimento, soprattutto da parte di Andrea, il cappellano dell’amore. La passione definita e descritta guarda, appunto, alla forma. Non ha nulla di corporeo in senso materialmente fisico. A questa particolare fattispecie di amore (‘sessuale’, diremmo noi oggi) Andrea dedica un secondario paragrafo siginificativamente intitolato “de amore rusticorum”. Rustici, sia inteso con giudizio: sono i campagnoli, certo, gli abitanti dei campi, non dei palazzi del signore, del castello; ma sono soprattutto quelli che si accontentano di una visione, per cosi dire, diretta e bastevole, senza ‘ immoderata cogitatione’, per ‘fare’ l’amore. Per ‘dire’ l’amore ci vuole ben altro, di cui non si dà prima il modo.
E la forma non ‘va per li occhi’ a qualsiasi ‘core’. Occorre che il cuore si situi al livello alto del pensare l’amore. “Al cor gentil rempaira sempre amore” dice Guinizzelli . E il suo appena più giovane sodale chiarirà, per bocca di un suo personaggio che di passione ha fatto vita e morte: “ Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende”. E Paolo è conquistato irrimediabilmente dalla “bella persona”. E Francesca è altrettanto irrimediabilmente presa del “costui piacer sì forte/ che, come vedi, ancor non m’abbandona”, pur nell‘esito infernale immutabile.
La forza inarrestabile e smisurata dell’amore colpisce anche Boccaccio quando, nell’introduzione alla quarta giornata del suo Decameron, difende le sue scelte (parlar d’amore e privilegiare le donne come interlocutrici del dire l’amore) attraverso l’unica novella non incorniciata, quella delle ‘papere’. Il giovane Cimone, separato dalla società umana fino all’esplosiva giovinezza, ‘vede’ in città oggetti che lo fanno pensare molto, troppo. Il padre, da sempre inibitore degli impulsi vitali del figlio, minimizza. Sono ‘papere’, quelle che Cimone ha visto. E Cimone chiede con naturalezza al padre di portarsi via almeno una di quelle ‘papere’. Ancora una volta, “Amor omnia vincit”.…
Anche secondo Dante e Petrarca vedere, pensare (tanto, troppo) e dire sono azioni costitutive dell’Amore. Beatrice è il trionfo del vedere pensare e dire: “Tanto gentile e tanto onesta pare/ la donna mia…”.
E Petrarca racconta il romanzo quotidiano dell’amore per Laura come emozione che si raffina per tutto il ‘liber fragmentorum’ che è il Canzoniere. E così la passione per la Laura terrena può diventare, nell’ultima sede, quello per la Laura Celeste: “Vergine bella/ che di sol vestita… “. Cioè, nuda di luce. Vedere non può che significare pensare, tanto, e vivere l’emozione estrema e suprema.
Proprio come il poeta e visionario d’amore per eccellenza che, al culmine della sua peripezia salvifica, prova l’emozione estrema e suprema: “Quella circulazion che sì concetta/ pareva in te come lume reflesso, / da li occhi miei alquanto circunspetta,/ dentro da sé, del suo colore stesso,/ mi parve pinta de la nostra effige:/ per che ‘l mio viso in lei tutto era messo”.
L’oggetto dell’amore risulta alla vista, al pensiero e al cuore come il Soggetto: “l’Amor, che move il sole e l’altre stelle”.
Alla fine, ancora una volta: “Amor est passio quaedam discedens ex visione ac immoderata cogitatione formae alterius sexus”!
Rino Caputo
(docente universitario)
ringraziamo l’associazione culturale.” il Circolo Di Minerva,” che edita la rivista “Quaderni coresi” per la collaborazione.
Immagini: in alto a sinistra Il Prof Caputo, a fianco Dante e Beatrice; in basso Laura e Petrarca.
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