Quando il rigore non è di rigore: la regola del fallo di mano e la pericolosa discrezionalità dell’arbitro

Il decisionismo di Massa (nella foto), l’arbitro di Juve-Milan? Molto discutibile, anzi sospetto. Le riprese televisive azzerano le possibilità di interpretazioni opposte e dicono che rispetto al luogo incriminato del campo non era nella condizione di giudicare, coperto da difensori e attaccanti, impedito  dalla   posizione di De Sciglio che sul cross di Lichtsteiner gli dava le spalle. Dovrebbe aver visto bene il fischietto addizionale Doveri. Dovrebbe, perché non è detto che si trovasse al posto giusto nel momento giusto. E’ questione di lana caprina quanto recita il regolamento alla voce falli di mano. Soprattutto ha margini di ambiguità che finiscono per caricare sulle spalle del direttore di gara pericolosi margini di discrezionalità.

In fine di un match che esistesse la vittoria ai punti avrebbe certamente premiato la Juventus, il Milan di Montella aveva tesaurizzato l’uno a uno e lo aveva difeso con unghie e denti. Lo staff arbitrale ha fissato in quattro minuti il recupero oltre il novantesimo e il tempo concesso non ha convinto tutti, ma poi, per l’espulsione di Sosa (fossi Galliani lo punirei con una multa salata per l’idiozia di meritare il doppio giallo a fine match) ha spinto Massa a prolungare l’over time di altri trenta secondi. Poteva evitarlo? La ragionevolezza dice di sì. E’ successo l’inverosimile in quei trenta secondi. In un assalto della Juve al forte rossonero, Lichtsteiner, difensore svizzero, a pochi metri dalla porta di Donnarumma, quasi dalla linea di fondo, ha crossato. A pochissima distanza, meno di due metri, il tiro violento è finito sul braccio di De Sciglio. L’azione, fulminea, non gli ha consentito di metterlo dietro la schiena. In ogni caso, come hanno mostrato diverse angolazioni di ripresa è andato il pallone verso  il braccio e non viceversa.

I due elementi di giudizio inducono l’arbitro, sempre, o quasi, a non concedere il rigore. Massa ha mandato Dybala sul dischetto, proteste furibonde del Milan, esecuzione perfetta, com’è nel raffinato repertorio dell’argentino,  2 a 1, amen. Amen? Nel corso di una telecronaca di basket, in campo due grandi squadre del Nord  e del Sud, uno degli arbitri fischiò a senso unico a favore della prima, compensato, non abbastanza, dalle decisioni corrette del collega. Una voce di dentro soffiò la notizia di un decisivo intervento del presidente della squadra vincente per favorre l’assunzione di un parente dell’arbitro in questione in un ente pubblico. Torneo internazionale di pallanuoto, est europeo: in acqua la finale. Di fronte due forti formazioni slave. Solo la superiorità tecnica dei vincitori  riuscì nell’impresa di contrastare gli avversari e vincere la preziosa coppa in palio e di avere la meglio sulla faziosità dell’arbitro, sfacciatamente a favore dei padroni di casa. Circolava, non smentita, la voce dei rapporti speciali tra il suo Paese e la nazione ospitante.

Diceva che il team connazionale dell’arbitro impegnato nel quadrangolare avrebbe dovuto rinunciare alla prestigiosa sfida per mancanza di risorse finanziarie del suo Paese, in crisi economica vicina al default. Niente trasferta se non fosse intervenuta la nazione dove si svolse la gara, disposta a ospitarla. Vero o no, fu chiaro a tutti che il fischietto a senso unico era stato costretto a  sdebitarsi per l’ospitalità accordata agli atleti suoi conterranei.  In generale, quando tutto fosse trasparente,  si dovrebbe consultare uno psicologo, forse un sociologo, per accertare l’imparzialità degli arbitri che dirigono partite di squadre dal grande passato, influenti per potenza economica e che nelle sedi istituzionali del calcio fanno pesare il blasone con ricaduta generale di prestigio del campionato e per un ricco giro  di soldi nel fastoso e non sempre limpido mondo del pallone. Come dire “ubi maior, minor cessat”.

Luciano Scateni