Ascoltando il suo ultimo album, appena uscito, “Blackstar”, si era avuta subito l’impressione di un lavoro fortemente introspettivo che avesse a che fare con il “mistero”, con la spiritualità ed i lati oscuri dell’esistenza; un singolo come “Lazarus” aveva con sè un senso di meravigliosa inquietudine con quei fiati di supporto così malinconici, ed ora, si può dire , un po’ funerei, soprannaturali all’ascolto. Ora è tutto chiaro, David Bowie aveva lavorato al disco dell’addio, della fase di passaggio dalla vita alla morte e lo aveva fatto raccontandosi quasi come anima in cerca di liberazione. Ecco quindi frasi come “oh, I’ ll be free ain’t that just like me”. Bowie ormai conduceva una vita molto appartata da newyorchese che si confonde nella grande mela e pensa alla famiglia e alla crescita dei figli: la sua attività dal vivo era ferma da svariati anni, ogni tanto appariva sul mercato un suo disco, sempre curato fin nei minimi dettagli, fino al definitivo “Blackstar”. Bowie ha rappresentato in pieno la potente forza trasgressiva del rock, ha saputo essere dandy e dissacratore, uomo e donna, i suoi alter ego ci hanno puntualmente riconsegnato un artista più camaleontico che poliedrico, carismatico, che sfuggiva alle etichette o forse le accorpava tutte: la sua vena artistica ha saputo confrontarsi con Andy Warhol, quella musicale ha fatto sua l’esperienza di Brian Eno, ha respirato aria di mitteleuropa, di elettronica, di rock bianco e di istintiva negritudine soul, ha saputo concedersi divagazioni dance di alta classe e suggestioni jazz, come nell’ultimo disco. Sperimentatore e popolare, grande front man e delicato cantautore, attore cinematografico e teatrale performer, provocatore e “duca bianco”, “uomo delle stelle” e androgino venuto dallo spazio. Etereo, come figura d’altri mondi cui ora è definitivamente tornato.
Pasquale Bottone
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