“Museo della Follia”: da Goya a Bacon

Una delle esaltazioni piu’ profonde dello spirito umano nasce dall’arte. E’ una manifestazione della propria anima legata all’estro creativo, unita all’immaginazione, allo sfogo, al tormento e all’angoscia del proprio vissuto. E la pazzia, nell’arte è un elemento espressivo fondamentale. Ecco allora i pittori folli, alla ricerca di una via di fuga dal dolore, o presi dalla smania di imboccare una strada per la salvezza dentro alle proprie opere. Michelangelo Buonarroti ne fu un esempio lampante. Soffrì per una forma di depressione di origine psichica, la ebbe per tutta la vita e infinite volte. Quel male incurabile della sua anima, lo portò ad invocare la morte come via di salvezza, viveva un dolore che lo sdoppiava e in alcuni momenti gli sembrò di soffrire addirittura di una doppia personalità.

Aveva a che fare con un altro sè stesso che non riusciva a controllare, questo stato fisico e psichico, lo condizionò ad una vita prodiga di ossessioni lavorative logoranti e continue, che fecero si, che ogni sua opera raggiungesse la massima perfezione, fino a consegnargli il titolo di scultore senza rivali. Francisco Goja, il grande “Spagnolo”incisore e pittore, era affetto da un’encefalopatia provocata da una intossicazione da piombo. Il piombo era un materiale usato in grande quantità a quei tempi, perchè miscelato nei pigmenti, ne conservava e ne valorizzava le tonalità, ma questo metallo per così dire “tenero,” assorbito in quantità dal suo corpo, gli provocò una grave sordità e una evidente alterazione della personalità. Fu questa sua condizione la causa principale della depressione che durò con crisi terribili per mezzo secolo. Divenne un grande visionario, ma riuscì con lucidità ad affermare durante una crisi molto importante la sua malattia definendola “Un male dei più terribili”. Nonostante ciò, vagò ancora per anni nella sua esistenza continuando a soffrire fino ad 82 anni, ciclicamente assalito dall’euforia o da uno stato catatonico irreversibile, tipici del male oscuro.

“Il malato per eccellenza,” tra i pittori, fu Vincent Van Gogh, anche lui soffrì per tutta la sua breve esistenza di quel male senza vie di uscita, epilessia e allucinazioni. Come gli altri, aveva crisi terribili e mutilanti per cui non riusciva a lavorare. Durante uno di questi episodi, cadde in un profondo stato di ansietà e confusione mentale, queste crisi lo portarono ad abbandonare la vita per sua volontà a soli 37 anni, rivolgendo un colpo di pistola contro se stesso. Ma i sintomi della pazzia, erano stati già galoppanti anche in precedenza e non lo abbandonarono mai. Un anno prima della sua morte, dopo una furibonda lite con l’amico Paul Gauguin, si recise l’orecchio sinistro, che regalò come dono d’amore ad una prostituta che era solito frequentare, la donna, inorridita non capì certamente quel regalo. Rimane testimonianza di questo episodio in uno dei suoi più famosi autoritratti. Vincent definì sè stesso” Sono un pazza epilettico,” mentre dipingeva quei corvi neri, sulle spighe dorate di un campo di grano. Markus Rotkowičs, noto come Mark Rothko, pittore nato negli States era affetto dalla stessa patologia devastante di tanti suoi colleghi, la sua vita fu una strada lastricata di pericoli e ostacoli, fatta di alti e bassi umorali, con uno stato depressivo protratto e mutilante, fino al 25 febbraio del 1970. L’artista, nel suo studio di New York, decise di intossicarsi con due flaconi di idrato di cloruro, una sostanza che vira dal blu al magenta, si tagliò le vene e l’arteria del braccio destro, per lenire la sua sofferenza, si suicidò di una morte “multicolor”, Antonio Ligabue, altro grande pazzo, figlio dell’arte e della natura. Sua madre morì per intossicazione alimentare insieme ai tre fratelli, condusse una vita inquieta ed errabonda. Viveva in preda allo smarrimento e alla follia con i sintomi più ampi, che incisero in modo preponderante e caratterizzarono la sua esistenza. Il suo luogo di lavoro erano le rive del Po, dove osservava e imitava gli animali selvatici, emettendo versi e muovendosi a loro immagine, si imbrattava di colori e fango mentre li dipingeva, danzava come loro creando una sorta di simbiosi. A Reggio Emilia, fu ospite del manicomio, era un autolesionista, quando i compaesani parlavano di lui, lo definivano” Al matt” (Il matto). Francis Bacon, legò strettamente la sua vita privata alle sue opere.

Fu cacciato di casa dal padre, un violento, che a soli 16 anni lo sorprese in abbigliamento femminile. Da quel momento la prostituzione divenne la sua forma di guadagno, si concesse immediatamente ad un amico del padre, e in seguito a uomini ricchi che gli procuravano danaro e storie travagliate. Il suo equilibrio psichico cedette, quando il grande amore della sua vita George Dyer, espressione vorace di una passione malsana, torturata, masochista e crudele si suicidò nel giorno in cui sarebbe andata alla ribalta del successo una mostra molto importante per l’artista. Bacon, tradusse il suo disagio esistenziale nei suoi celeberrimi ritratti, fatti di carne sfatta, figure deformi, distorte e fosche. Edvard Munch, il suo nome è associato per antonomasia all’angoscia. La sua visione della realtà era dominata dal senso insopprimibile di morte e travaglio del vivere, questi sentimenti negativi, vennero riportati dalla sua sensibilità nervosa, segnata dall’alcool e dalla fine incombente nei suoi quadri piu’ famosi. La fama non gli diede la pace sperata, solo il bere attutiva il male di vivere. Fu ricoverato in una casa di cura per malattie nervose a Copenhagen, ma il disagio non si placò. “L’urlo” è il suo quadro più rappresentativo e riguardo a quell’opera, lui stesso disse ” Solo un folle avrebbe potuto dipingerlo.” Lavorò con i suoi colori violenti e irreali, con quelle linee morbide di immagini deformi e irreali, assorbite dalle tele, come da una spugna che assorbe un liquido, Tutto consumato da quel delirio interiore, che accettava impotente, come il suo corpo accoglieva l’alcool che affogò il suo essere consapevole. Tanti e tanti i pittori del tormento hanno lasciato opere e testimonianze della loro follia, innumerevoli pagine di caratteri scritte fittissime, non basterebbero a descriverli ed elencarli tutti. Ognuno di loro contribuì tramite la malattia mentale ad esprimersi fino all’ultima pennellata, atta a descrivere quel male oscuro che li rese unici, famosi, immortali e sofferenti. L’ultimo che desidero ricordarvi, è Jean Michel Basquiat. Era un pittore Statunitense che visse per poco tempo, ma intensamente. Gli eccessi, erano i suoi compagni meticolosi che lo portarono a una notorietà precoce, ma anche a una deriva giovanile, il viatico fu creato dalle sostanze stupefacenti.

Cadde nel tunnel delle droghe e della tossico-dipendenza, cominciando a soffrire di disturbi psichici. Ebbe profondi buchi neri dell’anima, con problemi di riconoscimento di identità, viveva un profondo conflitto con se stesso, essendo un giovane alle prese con fantasmi interiori appena percepiti e dovuti alle sue origini afro-americane, e all’amicizia preponderante con un personaggio come Andy Warhol. Come James Dean, scomparve inghiottito da una vita eccessiva e come l’attore, fu definito il “James Dean dell’arte moderna.” Vittorio Sgarbi è oggi il curatore di una mostra itinerante, che rende onore all’arte determinata dalla pazzia, si snoda in un percorso eterogeneo di oltre 200 opere, tra dipinti, fotografie, sculture, oggetti e istallazioni multimediali sul tema della follia, tra le quali trova posto anche un dipinto di Hitler, che di pazzia era un maestro. Il MuSa a Salò, ospiterà fino a novembre 2017 la nuova esposizione dal titolo “Museo della Follia, Da Goya a Bacon”. Prodotta da tutti i matti con l’arte nel sangue.