Minzolini, fatale gli fu quel SI: e le acque agitò nel Pd

Nel sacrario di Palazzo Madama, dove l’Italia delle istituzioni legifera e interpreta il dettato della  Costituzione, i senatori dem  hanno sostenuto gli esami di riparazione dopo lo scandaloso no alla richiesta di espellere dal Senato l’ex direttore del Tg1 Minzolini, condannato per peculato. L’accusa provata è di aver utilizzato la carta di credito in dotazione Rai per spese personali illegittime. Un reato di cui vergognarsi, commesso da un giornalista strapagato per dirigere il telegiornale più “letto” d’Europa. La ruberia di Minzolini, va detto subito, non è cosa rara come la mosca bianca. In Rai, per anni, zero controlli veri su rimborsi spese dei dipendenti, fatture fasulle, sprechi. Poi stop a pernottamenti in alberghi 5 Stelle, ristoranti al top da due, tre forchette e primi furbetti colti in flagrante. Per esempio Minzolini. Cosa ci si sarebbe aspettato dalla compagine della sinistra dem? Certo il sì alle dimissioni da senatore. Neanche a pensarci. Nella data da annotare nel libro nero della vergogna il Pd ha consentito all’ex direttore del Tg1 di farla franca. Placet decisivo di alcuni dem, senza e neppure un accenno al mea culpa. La “cosa” torna in aula e stavolta il sì ignora l’accorato appello del senatore che dice “il giustizialismo ha perso, grazie per il no di Marzo, ma ora il Senato non abbia paura”. In 142 hanno detto che Minzolini non è degno di rimanere in Senato. Sconterà la condanna con i servizi sociali, scappatoia di favore per i politici di cui ha usufruito anche Berlusconi. Domanda: se chiedesse lo stesso trattamento Gennaro Esposito, reo di aver rubato per fame un pezzo di formaggio al supermercato,  gli sarebbe concesso? Ingiustizia è fatta è stato il commento di Paolo Romano, ovviamente di  Forza Italia. Lo stesso Senato, ha respinto le dimissioni dell’ex cinquestelle Vacciano, ora nel gruppo misto. Il poveretto si candida ostinatamente a lasciare lo scranno di Palazzo Madama e riceve ripetuti “no”.  Cinque per la precisione. Non è curiosità da pruderie capire se il precedente voto salva Minzolini pronunciato da eletti Pd sia stato “punito” con censure e sanzioni. Sembra né le une , né le altre. Forme di comportamenti analoghi non sono casuali  e neppure avvolti da nebulosità, non sono anomalie occasionali. Il back stage di non rare eresie politiche segnala la coesistenza nel Pd di anime connesse tra loro con disinvoltura spregiudicata per far numero, un mix che ha ignorato per opportunismo elettorale la genesi politica di oggetti storicamente agli antipodi. Come analizzare altrimenti lo scompiglio che riproduce le antiche fazioni interne alla Dc, il divorzio del socialismo di Saragat e Nenni, il dualismo Meloni-Storace,  l’addio di Civati e Fassina,  l’astiosa contestazione dei bersaniani e gli ammiccamenti della maggioranza al mondo dell’impresa, la sua conflittualità con il sindacato… Il caso Minzolini, per dirla con linguaggio da laboratorio, è solo uno di molti test, una nuova cartina di tornasole che si tinge di rosso allarme e alimenta il rischio di tsunami populista, che si chiami Salvini o 5Stelle.

Luciano Scateni