L’Italia? Una Repubblica fondata sul lavoro: e la disoccupazione? Solo un clichè

La disoccupazione? Un cliché

“Mancanza di possibilità di lavoro da parte di persona abile e desiderosa di lavorare”, questa è la definizione di “disoccupazione” che ci viene fornita dal vocabolario italiano. Quello che fino a qualche decennio fa sembrava essere solo un’eccezione alla regola, oggi è diventato un cliché, e nel conflitto contro la disoccupazione chi riesce a vincere è un vero outsider.

Per capire l’entità del fenomeno è bene citare qualche numero: solo il 53,2% dei laureati riesce a trovare un’occupazione entro i 3 anni dal conseguimento del titolo e di questi, un ragazzo su tre è fin troppo qualificato per il lavoro che svolge. Questo, che rappresenta pur sempre un problema fondamentale, di fronte alla disoccupazione totale però diventa marginale, e fa percepire le speranze degli studenti “naufragati” nel mondo del lavoro, come fossero nulle, facendo entrare i giovani “dottori” nel mood “dell’accontentati di quello che riesci a trovare, pregando di riuscire a trovare qualcosa”.

Quando si sente parlare di disoccupazione giovanile, lo stereotipo che viene in mente ritrae il classico universitario medio di 23/25 anni con tante conoscenze teoriche sulle spalle, ma nessuna competenza pratica, giusto? Beh, questa descrizione corrisponde alla realtà, o meglio, ad una parte di essa. Spesso infatti ci dimentichiamo dello step precedente alla laurea, non tenendo in considerazione quell’orda di diplomati che, per un motivo o un altro, non sentiranno mai la fatidica proclamazione “La dichiaro dottore in…”.

Nonostante tutte le, presumibili, buone intenzioni infatti, secondo Eurostat solo il 16,4% degli studenti universitari tra i 20 ed i 29 anni, completa il corso di studi ed ottiene la laurea.

Sono infatti i diplomati a rappresentare la stragrande maggioranza dei giovani disoccupati in Italia, che non volendo intraprendere gli studi universitari decidono, o sono costretti per mancanza di possibilità economiche o di conoscenze (“…è figlio di…”), a ricorrere ad una realtà ben poco praticata fino a qualche anno fa: i corsi di formazione professionale.

Si tratta di tutti quegli strumenti che vengono messi a disposizione sia dalle regioni a titolo gratuito, ma soprattutto da aziende e liberi professionisti dietro pagamento. Quella che può essere vista come una “compravendita lavorativa” rappresenta un mondo, quello della formazione post-diploma, che sembra dare speranza ai giovani che vengono convinti, o si autoconvincono, di trovare un’occupazione “comprandola al mercato”.

“Paese dei record”, che qualche “malalingua” direbbe anche dei “balocchi”, l’Italia lo è anche nella disoccupazione a livello Europeo. Lo stivale tricolore rappresenta però due realtà nettamente distinte: se al Nord la provincia di Bolzano rappresentasse uno Stato, avrebbe un tasso di disoccupazione addirittura più basso rispetto a quello dei cugini tedeschi. La situazione cambia drasticamente al Sud, dove invece la disoccupazione nelle regioni meridionali è paragonabile a quella di Spagna e Grecia, che con il 25% di disoccupati si piazzano sul podio a livello europeo.

Se la disoccupazione si ripropone come una realtà “rivisitata”, rivisitati sono anche gli acronimi di cui si circonda, che rappresentano nuove fasce generazionali: i “Neet”, dall’inglese “Not (engaged) in Education, Employment or Training”, rappresentano tutti i giovani compresi tra i 19 ed i 30 anni, che non solo non hanno un’occupazione, ma non sono impegnati nemmeno nello studio o nei corsi di formazione. La forbice si allarga ancora se si considerano anche coloro che un lavoro stabile hanno smesso di cercarlo e sono caduti nella rete dei lavori occasionali e soprattutto del lavoro nero. Una realtà, quella dei neet, che ha una presenza a livello mondiale, ma che vede l’Italia “fabbricarne” una quantità tale da far valere il primato in tutta l’Europa.

L’Italia è una Repubblica Democratica fondata sul lavoro (?) Beh, questo era il desiderio dei padri costituenti che hanno voluto lasciare un messaggio forte. Ripensando però alle parole scritte da Michele, il giovane precario di Udine che si è suicidato a Febbraio 2017, forse dal realizzare quel desiderio siamo ancora ben lontani: “Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile. […] Non posso passare il tempo a sopravvivere”.

In questi anni cosi “social”, dove gli hashtag fanno parte del quotidiano, non ci si può tirare indietro dal lanciarne uno che, ancora una volta, prova a dare speranza: #wehopetowork.

Simone Rufino