“Il sindaco gentile. Gli appalti, la camorra e un uomo onesto. La storia di Marcello Torre”, pubblicato da Melampo, è il mio ultimo libro. Un testo che ha avuto una gestazione lunga quasi un decennio. Perché? Per sfuggire alla “maledizione” del paradigma vittimario che attanaglia le biografie dei morti innocenti delle mafie. Una memorialistica sovrabbondante che spesso ammutolisce la storia con la forza di una testimonianza che non vuole essere contestualizzata. Il rischio è da un lato alimentare memorie parziali e dividenti, dall’altro appiattire lo spessore di un’esistenza sugli ultimi istanti – in una moviola estenuante e lancinante – per amplificare l’onda emozionale del sacrificio. Una narrazione che abbandona la strada della storia per seguire quella dell’agiografia. Mentre scrivevo avevo ben presente la lezione dello storico Giovanni De Luna: «Nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica gli “eroi” del Risorgimento (ma anche quelli della Resistenza) hanno lasciato il posto alle “vittime”; e la loro sofferenza è stata collocata al centro della nostra “memoria ufficiale”». Come ha scritto Giglioli: «essere vittime (…) immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio». Ma, in quanto storico, non m’interessava tessere le lodi dell’eroe civile, il mio scopo era, e rimane, la ricerca dell’uomo dietro l’icona collettiva, cercando di fare «più storia e meno memoria» e recuperando «un rapporto con il passato più problematico, più critico, più consapevole». Andrea Meccia nella sua recensione de “Il sindaco gentile” coglie appieno la missione dell’opera: «L’Autore è consapevole della fallacia della memoria, dei pericoli che derivano da un azzardato uso pubblico della storia e per questo la usa come metodo critico, analitico, con la consapevolezza che solo quegli strumenti permetteranno di raccontare ai lettori gli incroci più inafferrabili e enigmatici della biografia di Torre: essere stato nella sua carriera un avvocato di camorristi, di anarchici e di formazioni extraparlamentari. Aver vissuto i giorni del terremoto dell’Irpinia al fianco dei suoi cittadini, togliendo lamiere, pietre e detriti, requisendo il mercato ortofrutticolo di Pagani affinché diventasse rifugio per le persone rimaste senza casa, portando conforto ai sofferenti, denunciando i rischi di infiltrazione negli appalti, non scioglie i nodi della sua figura pubblico-professionale». L’onorevole Rosi Bindi, che ha presentato il libro a Pagani – in occasione del trentacinquesimo anniversario dell’omicidio – e a Roma alla Camera dei Deputati, individua, invece, la trama dello spessore umano che ha sorretto “Il sindaco gentile” nel corso della sua breve vita: «Marcello Torre è un pezzo di storia di questo Paese, una storia di libertà e autonomia. La storia di un amministratore onesto e di un vero professionista. Non si fa la lotta alla mafia se non si conoscono prima le difficoltà di amministrare, soprattutto certi territori. Non si improvvisa nulla, hai bisogno di radici profonde. E Torre aveva radici davvero profonde». Radici forti, radici repubblicane, radici saldate, dai valori del cattolicesimo democratico, al senso dello Stato e all’impegno civile che trovano nella Costituzione e nel Vangelo le due Regole supreme dell’antimafia: essere cittadini, sentirsi cristiani. L’esistenza di Marcello Torre corre lungo un binario le cui direttrici sono in continuo confronto dialettico: il politico e l’avvocato, il credente e l’intellettuale, l’uomo del popolo e il borghese raffinato. Allargando lo sguardo al contesto non si può non notare quanto questa storia sia paradigmaticamente italiana: un episodio locale dal valore nazionale. L’Italia si riconferma essere il paese dei mille campanili che compongono un arcipelago chiamato nazione. È nei contesti periferici, spesso ignorati dai media o, se raccontanti, esaltati come luoghi infernali, che assaggiamo il vero sapore della nostra natura, quella particolare condizione dove il bene e il male si alternano nelle vittorie e nelle sconfitte senza mai cessare. Questo è il paese delle mafie ma anche dell’antimafia, così come è stato il paese del fascismo e dell’antifascismo. Prima di chiudere, però, vorrei ringraziare don Luigi Ciotti che, nello scrivere la prefazione, ha dimostrato di essere entrato in piena sintonia con gli obiettivi del libro: «[Assassinando Marcello Torre] La mafia uccide una persona troppo libera per essere manipolata o anche solo “indirizzata”, una persona convinta che la democrazia è tale solo se alimentata dal contributo di tutti, solo se fondata su leggi scritte, prima che nei codici, nelle nostre coscienze. Questa l’eredità che ci ha lasciato Marcello Torre. Tanto più preziosa in un frangente come questo, in cui la crisi economica chiede alla politica di ritrovare la sua anima etica e ideale, e a noi tutti di non cedere alla tentazione della delega, delle scorciatoie proposte da chi sfrutta e manipola il malcontento. Marcello ci ha insegnato che solo mettendoci tutti in gioco possiamo costruire una società più giusta, e che le mafie, la corruzione e le tante forme d’illegalità a loro connesse, saranno sconfitte solo quando sapremo vincere l’indifferenza che ci rende passivi e quindi complici del loro male. Sta a noi tradurre, nelle azioni e nelle scelte di tutti i giorni, la sua grande lezione di vita. Questo libro ci aiuta a ricordarla».
Marcello Ravveduto
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