“Il telefonino è ormai la scatola nera della nostra vita”. Una battuta illuminante pronunciata dal protagonista del film “Perfetti sconosciuti” ( nella foto in alto), che ci porta al cuore di una delle questioni fondamentali della nostra epoca: l’avvento dell’Identità digitale. Questa scatola nera in miniatura registra ogni atto dell’esistenza, localizzandoci anche con esattezza in ogni momento della giornata. Essa è lo scrigno dei nostri segreti. Ecco perché mafiosi e terroristi di rango ricorrono sempre più ai “pizzini” per comunicare. Per la stessa ragione, quando si verifica un delitto, gli inquirenti si preoccupano subito di rintracciare il telefonino della vittima, dalla cui accurata analisi sperano di ricavare indizi e/o piste investigative in grado di condurli alla soluzione del caso. Un altro segnale significativo è il proliferare di società specializzate nel monitoraggio della c.d “Web reputation”, ossia il gradimento/apprezzamento riscosso in rete da personalità, imprese e istituzioni di vario genere. Il “Cosa si dice di chi” negli anfratti della Grande Ragnatela.
Complice la Rete, i social network, e lo smartphone come terminale di questa “diabolica filiera”, l’essere-nel mondo ha, dunque, subito un’inedita declinazione. Si è rarefatto trasferendosi nel cyber spazio, nell’eterno presente del tempo virtuale. L’atopia, il non-luogo, hanno sussunto e riplasmato il principium indivituationis. Il soggetto è stato assorbito e universalizzato dal medium telematico, che lo ha riconfigurato espropriandolo della sua identità reale per reincarnarlo virtualmente in quella digitale. Attraverso Facebook, ad esempio, centinaia di milioni di persone (tendenzialmente miliardi- WhatsApp ha appena raggiunto il primo miliardo di utenti) hanno riversato la loro vita privata in rete, raccontando gusti, inclinazioni, pensieri, sentimenti, abitudini, allo scopo di acquisire pseudo conoscenze e “amicizie” a distanza e spesso mettendo in scena il proprio narcisismo, alimentato dalla mediocrità quotidiana. Con l’identità digitale si è inverata la società narcisistica preconizzata da Christopher Lasch. D’altro canto, il controllo del Grande Fratello Globale si è capillarmente potenziato. Le agenzie d’intelligence, NSA in testa, intercettano tutto e tutti. Lo fanno per la nostra sicurezza e per combattere il terrorismo internazionale? Forse e in parte, ma il prezzo che le persone pagano in termini di erosione della privacy è consistente. A loro volta, le multinazionali hanno acquisito una conoscenza pressoché totale di miliardi di potenziali consumatori ai quali propinare merci e servizi di tutti i tipi a ritmo frenetico, a cominciare dagli stessi tablet e smartphone che vengono continuamente aggiornati e arricchiti di nuove complesse funzioni, e poi immessi sul mercato. Siamo di fronte, in altre parole, a una vera e propria colonizzazione dell’esistenza da parte di “potenze eteronome” che hanno ricostruito un dominio pervasivo sugli individui in forme mistificate e oggettivate, spacciandolo per una straordinaria democratizzazione dell’agire comunicativo. In realtà, si tratta di un’impressionante verticalizzazione del potere, piuttosto che della sua diffusione orizzontale. La tecnologia è divenuta una nuova metafisica, come paventava Heidegger. Ciò è accaduto perché l’oggetto tecnologico ha sottomesso il soggetto ontologico, complice la “naturale” tendenza della psiche a “impigliarsi” nelle cose, l’irresistibile propensione degli individui alla dipendenza.
Sono sproloqui filosofici indifferenti verso la mutazione antropologica dei cosi detti “nativi digitali” che fonderebbe un nuovo Umanesimo, l’era dell’Oltreuomo? Non esattamente, giacchè recentissimi studi scientifici stanno confermando proprio quelle intuizioni speculative. Facebook – tanto per citare il social network più famoso del pianeta – può avere sul cervello effetti simili a quelli provocati dalla dipendenza da cocaina. E’ quanto emerge da uno studio pubblicato su ‘Psychological Reports: Disability and Trauma’ e riportato da ‘The Independent’, sui sintomi ‘da dipendenza’ come ansia e isolamento. “Le dipendenze connesse alla tecnologia – si legge nella ricerca – hanno delle caratteristiche simili a quelle relative alle droghe e al gioco d’azzardo”. Ebbene, l’analisi dell’attività cerebrale effettuata dai ricercatori ha rivelato che le immagini relative a Facebook attivavano in alcuni studenti l’amigdala e lo striato, due regioni del cervello coinvolte nei disturbi compulsivi, provocando un comportamento simile a quello delle persone dipendenti da cocaina. Inoltre, per misurare la dipendenza da Facebook, anche gli scienziati della Norway’s Bergen University hanno sviluppato una sorta di questionario, chiamato ‘Bergen Facebook Addiction Scale’ che tramite alcune domande permette di valutare il livello di dipendenza dal social.
Assistiamo al trionfo dell’arte di manipolare le coscienze, dello spirito gregario, stigmatizzato da Nietzsche, che dilagano a livello di massa travolgendo ogni barlume di pensiero critico. Da un altro punto vista, caparbiamente filosofico, forse aveva ragione Baudrillard quando evidenziava l’astuzia dell’oggetto nell’attuare sapienti strategie di sottrazione rispetto alla volontà di potenza del soggetto, puntualmente frustrata nella sua aspirazione al dominio totale sulla realtà esterna. Del resto, anche la fantascienza non è da meno: il conflitto Uomo-Macchina è un topos classico di molte fiction. Chi può dimenticare la scena cult di “2001 Odissea nello spazio”, nella quale si rappresenta lo scontro drammatico fra l’astronauta e il computer per il controllo della nave spaziale?
Qualcuno potrebbe considerare queste argomentazioni come l’espressione anacronistica di un pensiero neoluddista, ma si sbaglia. La tecnologia, soprattutto quella digitale, è uno strumento fondamentale per migliorare la qualità della vita e per accrescere l’autonomia individuale. Essa, tuttavia, presenta una doppia faccia, un lato oscuro, come tutte le cose del mondo, che va analizzato e controllato. I processi d’innovazione tecnologica, pertanto, devono essere governati, in primo luogo dalle istituzioni pubbliche, ma anche e soprattutto dai singoli, onde evitare la sottomissione del soggetto all’oggetto. Come interpretare la rapida transizione in corso dall’”Internet delle persone” all’ “Internet delle cose”. Saremo presto governati e condizionati da un reticolo sconfinato di oggetti dialoganti e operanti che renderanno la volontà degli umani residuale, anzi superflua? C’è da chiedersi: questa deriva è irreversibile? Resistenze e controtendenze non mancano. E non tutte frutto di irrazionalità, alcune sono autorevoli ed esistenzialmente fondate.
“Smetto di scrivere questo blog, sono saturo della vita digitale. Voglio tornare nel mondo reale. Leggere lentamente, attentamente. Scrivere un libro”. E’ la dichiarazione schock di Andrew Sullivan, cinquantaduenne inglese da sempre a Washington, padre di tutti i blogger e pioniere del giornalismo online (il suo Daily Dish conta un milione di afficionados) che ha deciso di dire addio alla blogosfera per tornare alla carta stampata. “Sono un essere umano, prima di essere un autore. Sono uno scrittore prima di essere un blogger – ha spiegato – Sento il bisogno di altre forme, più antiche. Voglio avere un’idea e lasciare che prenda forma lentamente… Voglio scrivere lunghi saggi che rispondano in modo più approfondito e sottile alle questioni che si sono presentate in questi anni”.
La scelta di Sullivan deve farci riflettere. L’identità digitale è accettabile sotto il profilo giuridico-amministrativo, in quanto strumento di semplificazione burocratica, specialmente nelle pratiche anagrafiche, va invece criticata e respinta come nuova dimensione esistenziale alienante. Forse, è preferibile recuperare/valorizzare l’identità reale. Forse è più piacevole tornare a poggiare i piedi per terra; guardare l’orizzonte che sfuma nel rossore del vespro; toccare le cose; sfogliare un libro, non un testo sullo schermo; parlare con le persone, non chattare; guardarle negli occhi, non attraverso la webcam; fare l’amore, non il sesso virtuale.
Andare controcorrente procura sovente critiche e insulti da parte dei benpensanti, ma dà soddisfazione e talora consente di decostruire i luoghi comuni consolidati. Il tema è scottante e controverso.
Apriamo il dibattito, si diceva una volta.
Aldo Musci
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