E’ facile scrivere di fatti storici accaduti molto tempo fa. Quanto più cresce la distanza tanto più il quadro si fa globale. Spariscono i dettagli ma si vede l’insieme nella sua totalità. Inoltre gli storici hanno dibattuto sull’argomento e documenti inaccessibili ai contemporanei sono ora di pubblico dominio. Così possiamo parlare di Napoleone, di Garibaldi con tutto il distacco e la serenità necessaria.
Invece oggi vorrei parlare di fatti di cui in gioventù sono stato testimone. Ci fu un tempo in cui qui in Italia qualcuno pensava di poter fare la “rivoluzione” e lo pensava tanto seriamente da non fermarsi di fronte a nessun crimine, convinto di essere l’avanguardia di chissà quali “masse proletarie”.
Erano gli anni di piombo, quelli del rapimento dell’onorevole Moro. Io c’ero in quegli anni e li ricordo solo con orrore. Avevo vent’anni allora ed avrebbe dovuto essere un’età irripetibile e felice, che si finisce sempre per rimpiangere quando si hanno i capelli bianchi anche quando non ne varrebbe la pena.
In quel tempo l’estremismo di destra amava colpire nel mucchio, nelle piazze, sui treni ecc e quello di sinistra invece preferiva prendere di mira giornalisti, magistrati, dirigenti industriali identificandoli come “servi del potere”. All’inizio soprattutto gli esponenti del mondo industriale venivano sottoposti a tragici e ridicoli processi del popolo, ad imitazione di quelli inscenati dalle Guardie Rosse maoiste, in cui venivano accusati di sfruttare i lavoratori, riscuotendo, bisogna pur dirlo, un certo consenso che probabilmente spinse ad alzare il tiro. Le BR, ma anche altre formazioni minori, lasciarono da parte queste azioni dimostrative e presero ad uccidere direttamente cercando di colpire il cuore dello Stato, concetto piuttosto sfuggente.
Ma il fatto è che anche la gente comune doveva avere paura perchè nessuno poteva prevedere come e dove costoro avrebbero colpito.
Il culmine di questo incubo fu il rapimento dell’onorevole Moro il 16 marzo del 1978, durante il quale furono uccisi i cinque uomini della sua scorta, è bene ricordarlo. Non era un giorno qualsiasi quello. Quel giorno doveva essere votata la fiducia al primo governo che non vedesse i comunisti all’opposizione dai tempi della nascita della repubblica.
Il PCI non avrebbe avuto alcun ministro nell’esecutivo ma avrebbe votato favorevolmente dando vita al primo governo di solidarietà nazionale.
Le BR ritenevano che questo fosse un inaccettabile tradimento di ogni prospettiva rivoluzionaria e, nel loro delirio, ipotizzavano che le masse avrebbero seguito l’avanguardia in una insurrezione di tipo cubano. Naturalmente non successe. Intendiamoci non mancava il malcontento, né l’insoddisfazione nella base operaia che aveva contribuito alla realizzazione del cosiddetto “miracolo italiano” senza condividerne i benefici fino in fondo. Ma il comunismo aveva perso molto del suo appeal.
Forse fu proprio per questo che spinse alla decisione di uccidere Moro, nonostante l’avvio di trattative per la sua liberazione. L’Italia si divise tra quanti come i socialisti avrebbero voluto salvare la vita al rapito e quanti scelsero la via dell’intransigenza, con in testa il PCI, che voleva rendere evidente la sua distanza da ogni ipotesi insurrezionale, e molti settori della DC che temevano che Moro avrebbe spinto per un maggiore coinvolgimento dei comunisti nell’esecutivo.
L’epilogo della vicenda fu il ritrovamento del cadavere di Moro in una renault 4 parcheggiata in via Caetani a Roma, quasi a metà strada tra le sedi centrali del PCI e della DC.
Era il 9 maggio del 1978. Fu l’inizio della fine per il terrorismo rosso che aveva perso sia sul piano militare che su quello politico. La scia di sangue purtroppo continuò ancora facendo altre vittime più o meno illustri tra cui ricorderei il professor Vittorio Bachelet ed il giornalista Walter Tobagi.
Nel corso degli anni ottanta, l’organizzazione fu smantellata soprattutto per merito dei terroristi pentiti ai quali furono concessi forti sconti di pena in cambio della loro collaborazione.
Il sogno rivoluzionario, che pure aveva attraversato la sinistra italiana fin dai tempi della Resistenza, come possibilità rimandata ma mai dimenticata, era per sempre infranto. Non è un caso che in quegli stessi anni si tenne a Torino la nota marcia dei 40000, che volevano la riapertura della fabbrica dopo giorni di sciopero ad oltranza alla Fiat indetto contro i licenziamenti.
L’Italia era cambiata per sempre ed il compromesso storico tramontato per sempre.
Gianvittorio Musante
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