«Riconosco»- scriveva Moravia lungo la strada ormai in vista di Palmira- « non senza emozione, sullo sfondo del cielo incendiato, il gracile, patetico profilo dei colonnati. Riconosco anche, sulle dune, le smozzicate torri funerarie e, lassù, sulla collina più alta, la massa tetra del diroccato castello arabo. Infine riconosco, costrette dentro recinti di fango secco, le grandi, folte palme verdi azzurre de cui la città prende il nome. Palmira!».
Un dettaglio, quest’ultimo, del suggestivo scenario paesaggistico in realtà non registrato nel reportage legato alla precedente trasferta del 1953 dominato da due impressioni visive: il deserto dall’aspetto «lunare», la luce accecante, fortissima del deserto e le rovine, prima quelle della Valle delle Tombe («dimore di morti, in questo paesaggio morto,ai margini di una città morta») e poi le sparpagliate rovine di pietra, dal «color caldo, arrossato».
Trent’anni dopo, la tappa a Palmira segnava il ritorno in un topos, ritorno scandito e orchestrato per confronti e opposizioni: sconvolta «da una modernizzazione tumultuosa», la Siria preservava a Palmira la «sola cosa che sia rimasta inalterata», la «rovina “perfetta”», ovvero il segno della sua antica storia -fatta anche di conquiste e di dominazioni,« passaggi, sincretismi, transiti e innesti»- conservata inalterata dal «custode dell’eternità», dal deserto. Perché il processo di modernizzazione aveva invece inciso su ciò che circonda Palmira: già l’«antica realtà del deserto è crollata come un fondale di cartone» sotto il colpi delle nuove arterie che l’attraversano, segnate dal profilo degli stabilimenti petroliferi; il vecchio albergo«per pochi turisti colti e contemplativi» del 1953 era stato sostituito da «un falansterio costruito da un’impresa francese», un nuovo «tempio barbarico, con lumi enormi, di ottone, in forma di incensieri, colonne colossali che simulano i tronchi delle palme, il podio dell’orchestra a cui si accede per gradini come un altare»: insomma un «tipico albergo di lusso per masse», con centinaia di stanze e caratterizzato da una«sfrenata decorazione».
Colpita dall’avanzare del turismo di massa e standardizzato, Palmira trent’anni dopo diveniva un luogo da cui fuggire al più presto o, tutt’al più, un luogo dove la memoria colta e la fantasia del viaggiatore Moravia potevano fuggire liberamente seguendo il filo dell’antica storia della Regina d’Oriente, Zenobia e del suo consigliere Longino, un intellettuale, «un filosofo greco», che «a un certo momento, preferì, a Roma e ad Atene, Palmira, con il suo deserto, le sue carovane, i suoi palmizi, le sue divinità semite, la sua regina colta e dispotica». Ispiratore «della lettera di sfida ad Aureliano» inviata da Zenobia rivendicando l’indipendenza di Palmira da Roma e dal suo impero, Longino fu, rilevava Moravia, un intellettuale che volle sfidare i romani,«i più forti», pagando con la vita quest’atto di temeraria (e illusoria) richiesta di autonomia che comportò prima il lungo assedio e poi la distruzione di Palmira.
Moravia si serviva dunque della storia antica per decifrare l’attuale ( per allora) storia della città di «rovine», topos, anche, di invasioni e di conquiste da parte dei «più forti», destinate a ripetersi e a rinnovarsi nei secoli.
Una tappa, quella a Palmira, ed un “pezzo” del reportage che fungevano da preludio ad una riflessione estesasi lungo il successivo tragitto in auto che conduceva Moravia da Homs ad Aleppo lungo il quale imbastiva una conversazione con l’autista e “guida” locale, soprannominato l’ «Entusiasta», acceso patriota arabo iracheno, antisionista e, seppur moderatamente, antioccidentale; un «uomo civile e colto» che nel corso della conversazione ammetteva: « la fede può servire a mascherare di tutto, anche le cose che la fede stessa condanna. Una riflessione ancor oggi assai attuale. Come la successiva di Moravia: «la Storia, come il mare, è soggetta a moti ondosi: prima ci fu l’ondata araba, nel Mediterraneo, poi l’ondata franca nei Paesi del levante, quindi l’ondata turca fino a Vienna, infine l’ondata franco-inglese, coi Mandati in Medio Oriente, dopo la prima guerra mondiale; domani, chissà potrebbe esservi di nuovo un’ondata islamica….». Un’idea che piaceva all’ «Entusiasta» che alla domanda di Moravia su come egli spiegasse il «riflusso arabo all’alba del mondo moderno» così rispondeva: «Non c’è stato un riflusso arabo. Sono stati i nemici degli arabi a diventare più forti». E da qui, l’ultima, amara, riflessione di Moravia:«mi pare di capire» dalla risposta dell’«Entusiasta» che «la Storia» era inesorabilmente «concepita bellicosamente come una pura questione di inimicizia tra forze opposte, irrimediabile, eterna».
Al termine di questa inchiesta tutta “letteraria”, senza alcuna pretesa “politologica”, giova un recupero di ciò che Bernard Lewis scrisse nell’ormai lontano 1990 in Europe and Islam ( trad.italiana, Laterza 1991):
Fra il 1939 e il 1945, gli Stati europei andarono, probabilmente per l’ultima volta, a combattere le loro guerre sul suolo mediorientale, senza darsi troppo pensiero dei popoli della regione. Adesso sono le potenze mediorientali che talvolta, usando armi e tecniche militari diverse, vanno con altrettanta noncuranza a combattere le proprie guerre su suolo europeo. E oggi, sui mercati finanziari, sono i governi e alcuni privati cittadini dei paesi islamici che investono e prestano ingenti somme di denaro e dispongono di immensi capitali in Europa. Alcuni sono giunti a definire la situazione attuale come una terza invasione musulmana d’Europa, più vittoriosa sia della prima che della seconda […]Per la prima volta dal 1492, quando ebbe inizio la ritirata attraverso lo stretto di Gibilterra, si è creata in Europa una presenza musulmana massiccia e permanente. Queste comunità sono a tutt’oggi legate ai loro paesi d’origine da mille vincoli di lingua, di cultura, di parentela, oltre che di religione, eppure vanno integrandosi, inesorabilmente, nei paesi dove oggi risiedono. La loro presenza e quella dei loro figli e nipoti avrà conseguenze enormi, sul futuro sia dell’Europa che dell’Islam.
Le «conseguenze» le abbiamo ora sotto gli occhi: era ed è sull’inesorabile processo di integrazione che si è giocato, si gioca e si giocherà il futuro sia dell’Europa sia dell’Islam.
Francesca Petrocchi
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