Nei lontani anni ottanta, in vita il partito comunista, il voto delle amministrative a Giugliano, nella difficile provincia di Napoli, provocò un devastante vulnus nella credibilità del gruppo dirigente locale, responsabile di un deludente numero di “sì” e di riflessi politici negativi per l’intero territorio.
Guidavo la redazione di Paese Sera, immaginato come sponda per la rappresentazione di un pianeta complesso, la Campania tradizionalmente democristiana, spazio aperto a qualunque espressione politica, sociale, del mondo del lavoro, della solidarietà sociale, dei diritti civili, delle donne, dei deboli, dei giovani, purché progressista. Le notizie sull’esito della consultazione elettorale si accavallavano, a tratti si sovrapponevano in redazione, senza lasciare il tempo per valutare compiutamente il loro valore politico. Il default di Giugliano, inaspettato, sollecitò la decisione di recarsi all’indomani sul posto per capire e ascoltare dai compagni (l’uso di questo aggettivo era proibito per noi di Paese Sera, perché giornale alternativo all’Unità, organo di partito) umori e ragioni della sconfitta. Giugliano, non era solo un’impressione del nostro inviato, si presentava come un paese a lutto e nella sezione del Pci c’era un vuoto tetro, presidiato solo da un vecchio militante che carico di esperienze e battaglie sul campo affrontava la delusioni degli iscritti e l’aggressiva presenza dei cronisti.
“Come va?” gli fu chiesto e la risposta laconica tendeva a scoraggiare interrogatori scomodi: “Una battaglia si può perdere, la guerra no. E questa ancora non è guerra”. Si limitò poi a comunicare che erano in arrivo dirigenti da Napoli e da Roma. Ci sembrò eccessiva questa incursione, ma non più quando chi era stato delegato a commissariare Giugliano chiarì le motivazioni politiche della decisione ed enumerò le conseguenze del voto negativo oltre ogni previsione pessimistica. Ho ripensato a quei giorni, al rigore dei comunisti nel valutare gli errori politici dei suoi quadri, ho ricordato provvedimenti esemplari per candidati che osavano fare propaganda personale anche solo con un biglietto da visita con il simbolo del partito e il numero di lista, ho evocato il lavoro porta a porta nei luoghi del disagio sociale, la coerenza degli iscritti con comportamenti etici nella vita e nel lavoro quotidiano.
Confronto quelle stagioni con questa del terzo millennio che non in un centro di modeste dimensioni, ma nella terza città d’Italia, racconta di candidati a guida della città metropolitana di Napoli che prima, durante e dopo le consultazioni delle primarie hanno proposto il peggio di contrapposizioni aspre, a tratti violente, perfino ingiuriose. I dati dell’affluenza, molto limitata, mortificano la memoria di altre mobilitazioni che hanno coinvolto comunisti e simpatizzanti in dimensioni ora inimmaginabili e in parallelo di cortei esaltanti del primo maggio o per la difesa del lavoro, di studenti e operai tra loro solidali. La querelle esplosa sul risultato delle primarie a Napoli è specchio di un pressoché irreversibile degrado che mette a nudo la crisi della sinistra. Le fasi del conflitto sulla legittimità del risultato, pur nella modestia della sua dimensione, sono esemplare testimonianza di precarietà strutturale.
La natura anomala della vicenda vieta di schierarsi con chi si presume abbia vinto tra la Valente e l’ex sindaco e presidente della regione Bassolino. Questi ha ricorso contro il verdetto delle urne, ha denunciato episodi, qualcuno filmato, di “induzione” a favore della competitrice da parte di persone che invitavano a votarla accompagnando la sollecitazione con uno o due euro previsti come contributo al Pd degli elettori. E’ stata nominata una commissione per valutare il ricorso, a maggioranza renziana (che da Roma non ha fatto mistero di “tifare” per la Valente): con un’incredibile interferenza con il suo lavoro teoricamente super partes, i vertici del Pd, prima ancora che i commissari esaminassero il ricorso, hanno dichiarato valida la votazione, pur ritenendo opportuno indagare sugli episodi denunciati. E la segreteria del partito? Assiste impassibile alla brutta vicenda delle primarie napoletane e alla ricaduta negativa sul consenso già poco consistente dei napoletani per il Pd.
Un favore così, gratuito, galvanizza 5Stelle e De Magistris prossimi avversari di Giugno e si aggiunge ai contraccolpi inferti alla propria credibilità dai casi, una volta rari, ora frequenti, di uomini del Pd nelle istituzioni e non solo, coinvolti in episodi di corruzione. Di preoccupante, in queste ore, è l’aggressiva resurrezione dal limbo dorato di incarichi extra partitici di Massimo D’Alema che sferra un attacco concentrico su Renzi, con espressioni che un tempo i comunisti avrebbero forse indirizzato solo ad avversari poco raccomandabili della destra. Fino alla scissione? E come, la storia non ha dunque insegnato nulla alla sinistra storica, indebolita più volte da fughe a sinistra di “pezzi” per Pci scelte come via più reboante di dissenso, preferita a battaglie e scontri, anche duri interni sulla linea politica del partito. Forse è tempo che Renzi separi i ruoli di premier e di segretario del Pd, per affidare quest’ultimo a chi possiede qualità di mediatore e di sintesi tra le diverse anime, ma che sia soprattutto svincolato da accordi palesi o occulti con il centro destra, finora firmati per ottenere di approvare in Parlamento leggi e riforme non condivise dall’opposizione.
Luciano Scateni
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