Caso Popolare di Bari, risparmiatori a rischio come per Veneto Banca?

La vicenda della Banca Popolare di Bari è la fotocopia di quella che ha connotato il percorso distruttivo delle due grandi banche popolari del Veneto: Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca. Le premesse fattuali sono proprio le stesse: una banca popolare non quotata che cresce in modo esponenziale e che accompagna sistematicamente l’espansione economica di un territorio, attraverso una politica di sostegno economico alle imprese; il valore delle sue azioni che sale progressivamente e che attira i risparmi di tanti aspiranti azionisti, convinti di porre al sicuro i loro denari e di farli fruttare nel modo migliore; una disinvolta vendita di obbligazioni subordinate (prima che la Consob le indicasse come prodotti finanziari riservati ad investitori professionali) e di azioni, anche attraverso finanziamenti ad hoc; una consolidata presenza ai vertici gestionali di un manager bancario, che ha svolto per anni un incontrastato ruolo dominante; l’improvvisa discesa del valore delle azioni ed il conseguente impoverimento di migliaia di soci, inchiodati altresì dalla illiquidità dei titoli; la vanificazione del diritto di recesso, per come disciplinato  dal decreto legge n. 3 del 2015, trasformato in legge n. 33/2015 approvata (con modifiche) al Senato con il voto di fiducia.

E’ esattamente quello che è successo, qualche mese fa a Veneto Banca e a Popolare di Vicenza, i cui soci (circa 88.000 per la prima e circa 110.000 per la seconda) hanno improvvisamente perduto i risparmi di una vita.

Anche a Bari si è lamentata una prolungata, colpevole e grave distrazione dei Regolatori, che non hanno saputo (e, forse, neppure voluto) salvare gli azionisti, chiamati a pagare il conto finale della riforma delle banche popolari. Ed anche qui gli azionisti, lungi dall’essere investitori speculativi, altro non sono che risparmiatori che, fidandosi delle assicurazioni provenienti dagli esponenti del sistema bancario e della politica, erano stati indotti ad individuare nelle azioni delle banche popolari non quotate il bene rifugio delle economie di famiglia. Del resto, il meccanismo del voto capitario, che connotava le assemblee degli azionisti delle popolari, era sempre stato un fattore idoneo ad allontanare gli interventi degli speculatori proprio perché il loro voto, indipendentemente dalla consistenza del capitale di cui essi fossero portatori, contava esattamente come quello di qualsiasi altro piccolo e piccolissimo azionista. E’ certo vero che il sistema del voto capitario comportava notevoli inconvenienti, soprattutto per banche medio-grandi, per le quali era una connotazione anacronistica; ma è anche vero che un cambiamento così radicale e significativo, dopo 130 anni di vigenza del meccanismo, avrebbe dovuto essere deciso con una riforma graduale, proprio per proteggere i piccoli azionisti e consentire loro di uscire dalla società, preservando il potere di acquisto delle loro azioni. Essi, invece, sono stati travolti in un vortice iniziato con un decreto legge (il n. 3 del 2015), che ha addirittura vanificato il diritto di recesso, garantito dall’ordinamento giuridico, degli azionisti dissenzienti dalle decisioni di trasformazione della loro società.

E, se, dunque, i soci delle Popolari non quotaste (con attivo patrimoniale superiore a 8 miliardi di euro) devono essere considerati risparmiatori, e non investitori in senso proprio, non è difficile capire che le vicende che hanno sconvolto o stanno sconvolgendo le Banche Popolari non quotate (Veneto Banca, Popolare di Vicenza e, ora, Popolare di Bari) corrispondono ad altrettanti tradimenti del risparmio e sono smaccatamente lontane da quelle tutele che la Carta Costituzionale (art. 47 Cost.) ha prefigurato come fondamentale principio della Repubblica Italiana. La Riforma, di cui al decreto n. 3/2015 ed alla legge n. 33/2015, è avvenuta, con buona pace dell’art. 47 Cost., proprio sulla pelle dei risparmiatori.

Per avere un’idea della dimensione economica del disastro, basta considerare che, in termini di erosione di ricchezza, sono stati bruciati denari superiori ai danni presumibilmente provocati dal recente terremoto del Centro Italia. Dunque, una vera e propria tragedia che ha messo in ginocchio (o sta per farlo) migliaia di famiglie, improvvisamente impoverite e private dei loro risparmi; tragedia che, per gli azionisti della Popolare di Bari, non sembra ancora finita nonostante gli sforzi della stessa Banca di minimizzare la vicenda.

In tutto questo scenario sorprende, ancora una volta, la grave miopia della Vigilanza di Banca d’Italia e della sua politica dei controlli: è evidente che un disastro economico (tale è anche quello della Popolare di Bari, le cui azioni, divenute illiquide, sono state svalutate del 21% in un sol colpo; ma non è finita …) non può nascere all’improvviso da singole operazioni economiche, ma trae necessariamente origine da cause strutturali ben radicate. E, dunque, o Banca d’Italia non aveva capito la fragilità della Banca (e, con essa, il pericolo per i risparmiatori) oppure, pur avendola percepita, aveva tollerato il malgoverno bancario, senza intervenire in alcun modo.

In entrambi i casi, sarebbe opportuno che Bankitalia spiegasse la ragione per la quale aveva suggerito alla Popolare di Bari – come emerge da precise notizie di stampa – di incorporare la moribonda TERCAS (Cassa di Risparmio di Teramo), portandosi in pancia considerevoli sofferenze, fatte così pagare agli azionisti della banca aggregante. Eppure, a quell’epoca, Banca d’Italia avrebbe dovuto essere perfettamente a conoscenza delle sue difficoltà.

Del resto, la politica dell’aggregazione fra banche, quale strumento per risolvere i problemi gestionali delle aggregate, corrispondeva ad una precisa scelta operativa di Banca d’Italia, come testimoniano le tante negativissime fusioni eseguite da Veneto Banca e Popolare di Vicenza (basti pensare alle pressioni per far comprare la problematica Banca Etruria da quella di Vicenza, non eseguita solo per la resistenza della prima, subito poi commissariata; e anche alle pressioni per far aggregare Veneto Banca da Popolare di Vicenza, non eseguita anche per la ribellione in assemblea dei soci della prima).

La recente storia delle Popolari Venete deve, dunque, essere una lezione per gli azionisti della Popolare di Bari. I quali, a ragion veduta, hanno ora il timore di restare, come i risparmiatori veneti, con il cerino in mano, essendo certo che il valore del recesso registrerà un ulteriore significativo ribasso.

Che fare, allora? Tutti i soci delle ex Popolari trasformate o trasformande coattivamente in società per azioni (poco meno di 300.000) devono riunirsi e costituire un’associazione a livello nazionale per lottare al fine di ottenere i dovuti risarcimenti!

Uno Stato serio non può così smaccatamente agire in contrasto ad uno dei principi più importanti della Carta Costituzionale: la tutela del risparmio (art. 47).

Giovanni Schiavon

già Presidente del Tribunale di Treviso

già Vice Presidente di Veneto Banca